Uganda, l'alienazione
Il fiume Akagera entra nel lago Vittoria. A 200 metri dalla foce un cavo lo attraversa: è un tentativo di barriera, con luce elettrica. È qui che vengono avvistati, anche di notte, i corpi delle vittime ruandesi trascinati dalla corrente del fiume verso il lago. Vengono trainati e arrivano ormai sbiancati e un po' putrefatti, avvolti in teli di plastica.
Oggi,
tra i 120 arrivati, anche uno con una carta d'identità, il nome
illeggibile, ma chiara la data di nascita, 1973, Hutu.
Quelli
di prima? Una mamma ancora con il casco di banane fresche addosso e
un bambino fasciato attorno alle spalle. Vengono poi caricati a
decine su un barcone e trasportati al villaggio vicino, scaricati
sulla riva e ammucchiati. Arriva un autocarro, lo riempiono di corpi
che saranno portati ad un campo, dove ruspe scavano ininterrottamente
fosse comuni, non lontano dal villaggio. Un villaggio dignitoso,
armonioso in mezzo a una vegetazione rigogliosa.
Gli
abitanti? Allibiti, intontiti, pescatori improvvisamente trasformati
in becchini, volontariato il loro. Dal 12 maggio non vedono altro e
sono invasi da una puzza terribile, nauseante. Il loro coordinatore
Marc Ayobe, disponibile, efficiente, ci accoglie con tenerezza e ci
spiega tutto. Tra l'altro ci dice che il governo ugandese ha ordinato
di non mangiare pesce. Ma loro si chiedono: “di cosa vivremo?” E
ancora pescano e si cibano. Anche loro toccati del genocidio del
Rwanda.